lunedì 22 agosto 2016

La Grande Opera su Milano X


Alberto Mossino e Vito D’Ambrosio, “La Grande Opera”, Arca Edizioni
Cosa succede quando in una piccolo e sonnacchioso paese della provincia piemontese si comincia a mormorare che presto verrà costruita una centrale nucleare? Partendo da questo scenario fictional ma verosimile, Mossino e d’Ambrosio mettono insieme un thriller di provincia con tutte le carte in regola.
Eh si, perché se di fiction si tratta (è questo il caso), personaggi, scenari, dinamiche sono descritte con colore e spessore.
Il plot narrativo funziona, il ritmo della storia incalza fino all’ultima pagina, alternando principalmente due punti di vista: quello di un trentenne del paese, che diventerà uno dei leader della protesta assieme al suo entourage, e quello di un cronista cinquantenne, scafato e combattivo.
Scorrendo le pagine si sente l’eco delle proteste dei NO TAV: in alcuni capitoli rivivono dibattiti che sembrano raccolti in presa diretta dalle assemblee di movimento e si delineano strategie sperimentate nelle lotte contro l’alta velocità in Val di Susa.
La passione per la scrittura del duo Mossino / d’Amborsio si combina con un amore incondizionato per la vita placida del countryside piemontese, descritto in tutte le sue contraddizioni e ingenuità, regalandoci un piccolo grande romanzo che mescola crime e denuncia politico-sociale.

domenica 19 giugno 2016

Capitolo 19 - AZIZ - La Grande Opera

  


Capitolo 19

Balengo - ottobre 2010 - prima settimana

Che giornata di merda... non sono neanche riuscito ad uscire cinque minuti dall'officina. Ma se tutto va bene, adesso finisco di cambiare la centralina su questo SUV del cazzo e me ne scappo a Torino da Manu, magari si va al cinema.

"Pole vieni, c'è Aziz che vuole salutarci".
"Aziz? E perché vuole salutarci?".
"Assalam aleikum amici. Mi trasferisco in un'altra città".
"Aziz, davvero te ne vai?".
"Sì, ho deciso, porto via la mia famiglia da qui".

Aziz, il primo marocchino arrivato a Balengo, se non sbaglio era il 1993. Passava ogni tanto per il paese carico di tappeti, lenzuola e asciugamani. A sentire mia madre era mercanzia di prima qualità e per di più a buon prezzo. In paese lo chiamavano 'l moru, veniva trattato con diffidenza, anche se poi alla fine tutti compravano qualcosa da lui. Era uno spasso osservare le donne di casa che contrattavano fino all'ultima lira su ogni pezzo acquistato, un gioco e un rito da celebrare ogni volta identico a sé stesso, quel tanto che bastava per illudere le massaie di aver concluso l'affare della vita.
Capitava che qualcuno gli offrisse da mangiare, un panino e un bicchiere di vino, ma lui rifiutava con insistenza e se ne andava via. I miei paesani scuotevano la testa increduli, accusandolo di essere un ingrato e maleducato. Più tardi scoprimmo che Aziz di fame ne aveva, e anche molta, ma era costretto a rifiutare il convivio per via della sua religione. L'alcol nel vino e il prosciutto di maiale sono ingredienti vietati dall'Islam. Se l'avesse spiegato prima, gli avremmo offerto uova e formaggio... à l'è propi 'n maruchin...
Poi un vecchio contadino gli aveva chiesto se voleva lavorare qualche giorno in campagna, così poco per volta aveva iniziato a fermarsi sempre di più in paese, fino ad affittare una porzione di cascina tutta per sè.
Un anno tornò in Marocco per le ferie e ricomparve mesi dopo accompagnato da Nadia, la giovane moglie sposata al suo paese, bella e velata.
Le cose gli andavano bene, aveva trovato un'occupazione stabile presso un magazzino di attrezzature edili, erano nati tre figli, due femmine e un maschio, ormai perfettamente inseriti nella quotidianità di Balengo.
Non senza fatica, un paio di anni fa aveva ottenuto la cittadinanza italiana, era uno di noi a tutti gli effetti, anche se per molti restava comunque 'l moru... qualcosa di lontano, non necessariamente inferiore, ma comunque diverso.
Con Aziz ho fatto amicizia da subito, passava dall'officina in continuazione a cercare improbabili pezzi di ricambio da spedire in Marocco a suo cugino che faceva il meccanico.
Ben presto abbiamo iniziato a fumare insieme, l'hashish che ci procurava era decisamente di ottima qualità. Qualche sera veniva al bar del paese a vedere il calcio sul megaschermo. In queste occasioni si concedeva anche una birretta, ma solamente dopo averci fatto giurare che non l'avremmo detto ai suoi connazionali.
Poi arrivò la moglie, e siccome tutto il mondo è paese, Aziz smise di frequentare il bar e di procurarci il fumo.

"Ma perchè te ne vai? Hai trovato un altro lavoro?".
"No, per adesso vado a Savona da mio cognato, poi si vedrà, ma da qui vado via".
"Ma... cosa...".
"Non ho portato qui mia moglie e i miei figli per farli ammalare, meglio tornarsene in Marocco piuttosto".
"Ma è per la centrale nucleare che te ne vai?".
"E per cosa, sennò? Qui sto bene, ormai ho il lavoro, la casa, i figli che vanno a scuola, il piccolo gioca anche a calcio... ma non posso rimanere in un posto dove si può morire per niente".

Attonito osservo Guido scuotere la testa sconsolato. Eppure questo marocchino ha ragione, e se l'ha capito lui, che da sempre è considerato poco più che un ignorante, allora perché gli altri stanno zitti e non si ribellano? E mi viene da invidiarlo, a 'sto marocchino... lui che qui non ha radici, genitori, terra, affetti e ricordi. Lui che può far su le sue cose ed andarsene via, così, quando e come vuole, e lasciarci qui a "morire per niente".
"Morire per niente… 'l maruchin, à là propi dila giusta".

Ci salutiamo con affetto, sincerità e reciproca malinconia, promettendo di tenerci in contatto, Aziz ci regala una bella confezione di datteri e noi ricambiamo con un coprivolante leopardato.
Quando se ne va, io e Guido ci fissiamo senza trovare le parole.
Passano i secondi, tanti, poi sussurro: vanta fè cheicos... bisogna fare qualcosa.
Guido annuisce. Con sguardo fiero.
Inshallah.

giovedì 12 maggio 2016

La Grande Opera

in vendita online su
ARCA EDIZIONI
IBS
in libreria
GOGGIA - Corso Alfieri 299, ASTI
TREBISONDA - Via Sant'Anselmo 22, TORINO 
Se per caso vi è capitato questo libro tra le mani, apritelo con precauzione. Leggerlo potrebbe essere complicato.
Finireste a ridere come matti o a innamorarvi di qualche personaggio.
Potreste addirittura passare per pericolosi sovversivi o, peggio ancora, se ve lo trovassero addosso il giorno di un corteo, per abitanti di Balengo.
Balengo, un piccolo Comune del profondo Piemonte, dove stanno costruendo la Grande Opera. Un mostro che minaccia di portarsi dietro devastazione, mafie e corruzione, carcere e disperazione.
E mentre la Grande Opera avanza, le speranze di Balengo sono nelle mani del cronista Arturo Zanetti, ma sopratutto di Pole, Guido e Kate, innocenti e inconsapevoli avversari di politici corrotti e di quel progresso che fa guadagnare.
Una manciata di ragazzi, che in questi anni ha alzato gli occhi su una cosa sbagliata. E da allora non li ha più abbassati.

giovedì 1 gennaio 2015

Il Lato Scuro

IL LATO SCURO
un libro di Tony Alum, tradotto da Alberto Mossino

1995 – Torino 
In una sola settimana quattro giovani ragazze nigeriane vengono assassinate. Chi sarà la prossima? Chi è l’assassino?
Porta Palazzo, il cuore multietnico della città è in subbuglio: paura, manifestazioni di protesta, scontri con la polizia.
Tony Alum è il proprietario dell’Allen Avenue Restaurant. 
Dal bancone del suo locale registra e racconta il mondo che ruota intorno a Porta Palazzo: migranti africani, prostitute, spacciatori, madam, trafficanti, african club e storie d’amore.
E narrando la storia di Efe, una ragazza nigeriana vittima della tratta, Tony Alum indaga sulle motivazioni che spingono uomini e donne, giovani e vecchi, dall’Africa fino in Europa.
Questo romanzo è una testimonianza autentica e preziosa del mondo dell’immigrazione africana a Torino negli anni ’90. Scritta da “uno che c’era”.

Tony Alum ha conseguito la laurea in Library Science-English presso l'Università di Nigeria, Nsukka, nel 1988.
Nel 1989 emigra in Europa e a Padova inizia la sua esperienza italiana come vù cumprà.
Dopo anni di duro lavoro diventa il direttore dell'Allen Avenue Restaurant e presidente dell'Associazione per l'integrazione africana a Torino.
E' tornato in Nigeria nel 2000 dove è consulente editoriale per Raymond Publications e presidente di Ivory Readership Club e dell'Associazione degli Autori Nigeriani (ANA), sezione di Enugu State.
E' il curatore della rivista di Human Rights Volunteer Corps, un'importante associazione nigeriana che lotta per i diritti umani.

Il lato scuro” è il suo primo romanzo.
Nelle sue parole: “Il lato scuro” è la mia risposta al profondo dolore che ho provato per il brutale omicidio di quattro ragazze nigeriane in una sola settimana a Torino nel 1995.

lunedì 1 dicembre 2014

suore, bestemmie e ragazze madri in fuga

Una ragazza nigeriana, clandestina e analfabeta mi ha dato appuntamento alla stazione. 
In una mano tiene un sacco dell'immondizia con dentro le sue poche cose e nell'altra il figlio di 12 giorni. 
Sta scappando da una suora.

“Please, I need your help...”.
Quante volte avrò sentito questa frase? La voce è sempre la stessa, supplichevole e l'inglese traballante.
Sono anni che mi occupo di accoglienza per donne migranti, spesso vittime della tratta, ragazze giovani e vulnerabili che trafficanti senza scrupoli hanno messo sulla strada.
Capita così che devo mollare tutto, salire in macchina e dirigermi verso la stazione, quasi sempre il luogo prescelto per l'incontro con la sconosciuta di turno.
Anni fa ricevetti una chiamata alle 4 del mattino, la ragazza diceva di aver paura, qualcuno in strada le aveva dato il mio numero di telefono, voleva scappare. Fu una levataccia, poi di corsa verso la stazione, i bar ancora chiusi, neanche il tempo di un caffè. E me la ritrovo lì davanti, truccata come a carnevale, con un paio di pantaloncini fucsia che a fatica contengono un culone oversize. Un breve scambio di saluti, domande e risposte di rito.
“Vabbè... sali in macchina, ti porto in un posto sicuro, poi con calma vedremo cosa fare”.
Nel piazzale uno spazzino solitario ci osservava con aria ambigua, forse invidia, probabilmente commiserazione.
Sono passati 8 anni e quella ragazza è ancora al Centro di Accoglienza, è diventata un'operatrice sociale, non chiede più aiuto, è lei che lo offre alle ragazze appena arrivate.

Altro giro, altra corsa.
Mi ritrovo davanti una intrigante nigeriana vestita a festa con quattro enormi valigie al seguito.
“Adesso sono pronta, ho deciso di scappare, portami via”.
Nessuno spazio per una replica, il tono è perentorio: “Vengo con te”.
Una frase che in una situazione differente mi avrebbe stuzzicato, e non poco.

E poi ancora...
“Vienimi a prendere, non ce la faccio più...”.
“OK, dimmi dove sei?”.
“A Verona”.
“Cazzo, è un po' lontano. Ma non c'è nessuno lì a cui rivolgerti? Non puoi chiamare la polizia?”.
“No, una mia amica mi ha detto che posso fidarmi solo di te, per favore...”.
“Non adesso, adesso non posso, domani sera, va bene?”.
“Ti aspetto, per favore...”.
Quattro ore di viaggio, patatine e spritz in un bar da camionisti, scambio confuso di sms per capire come riconoscerci, sosta veloce nella piazzetta convenuta.
“Sei tu Paula? OK, sali in macchina, dai andiamo. Fai attenzione che non ci segua nessuno. Ma parli italiano? Mi capisci?”.
Due occhioni lucidi sono l'unica risposta
Altre quattro ore in notturna. Pensieri tanti e reciproche incertezze silenziose ad incrociarsi.

Ma questa volta è diverso.
La fisso negli occhi, sono assenti, non c'è paura ma rassegnazione.
Si porta appresso un unico bagaglio, un sacco dell'immondizia gonfio di indumenti. E basta.
La voce è flebile, le parole poche: “Please, I need your help...”.
E ancora, come un mantra: “Please, I need your help...” .
Avrà si e no 18 anni.
Continuo a osservarla con un senso di imbarazzo, questa volta mi sento impreparato.
Avvolto in uno scampolo di stoffa la ragazza tiene in braccio una minuscola creatura. Di appena 12 giorni.
“Andiamo” è l'unica cosa che riesco a dire.

“Il mio nome è Pamela. Sono nata  nel 1994 a Benin City, Edo State, Nigeria.
Ho finito la scuola primaria nel 2006. Nel 2009 ho finito la scuola secondaria.
Nel 2012 sono andata a lavorare in una sartoria per sei mesi.
In sartoria qualche volta veniva una donna a portare ad aggiustare dei vestiti. Un giorno al lavoro questa donna mi ha parlato della possibilità di andare in Italia insieme ad altre ragazze che sarebbero partite a breve.
Questa donna si chiama Mama Eno ed è la madre della mia madam in Italia.
Dopo un giorno Mama Eno mi ha chiamato dicendomi di preparami e di recarmi a Lagos.
Sono andata a Lagos dove mi aspettava un uomo, il quale mi ha accompagnato in una casa dove c'erano altre ragazze.
Dopo 4 giorni l'uomo mi ha portato a fare tutti i documenti utili per partire.
Sul passaporto c'era scritto un altro nome, non il mio. Mi ricordo solo che il cognome indicato era Kuti, un nome comune tra l'etnia Yoruba, perché l'intenzione era farmi entrare in Italia come figlia di un uomo di etnia Yoruba.
Dopo aver fatto i documenti necessari sono ritornata a Benin City. Mama  Eno mi ha detto che mi avrebbe chiamata quando sarebbe arrivato il momento di partire.
Il 25/12/2012 Mama Eno mi ha chiamato e mi ha fatto fare un giuramento voodoo a casa sua alla presenza di un native doctor. Inoltre mi ha detto che i documenti erano pronti.
Ho giurato di pagare 60.000 euro.
Avrei dovuto dare tutti i soldi a sua figlia (la madam a Torino) e che se non restituivo tutta la somma sarei morta in Italia. Finito di pagare il debito sarei potuta ritornare in Nigeria a riprendermi le mutandine che Mama Eno mi aveva preso per far il rito voodoo e che avrebbe utilizzato per farmi morire nel caso non avessi pagato il debito a sua figlia.
Dopo il rito voodoo Mama Eno mi ha dato anche una benedizione, per il viaggio e per la vita in Italia, in modo che andasse tutto bene e riuscissi a pagare tutto il debito.
Il 25/12/2012 da Benin City sono andata a Lagos.
Sono rimasta a Lagos a casa di un uomo di nome Monday con altre tre ragazze.
Monday mi ha comprato il biglietto per venire in Italia.
Monday mi ha accompagnato insieme a un'altra ragazza, Faith, all'aeroporto. Faith mi ha accompagnata durante il viaggio, perché non era la prima volta che veniva in Italia. Faith parlava in aeroporto anche per me e diceva che ero sua figliastra e che stavamo andando in Italia a trovare i genitori.
In aeroporto c'era un uomo che ci aspettava e si è fatto passare per mio padre e per marito di Faith. Ha inscenato che accompagnava la moglie e la figlia al volo e poi se ne è andato.
Prima di partire Monday ci ha consegnato un foglio dicendoci che era da dare al taxista una volta arrivate a destinazione.
L'aereo è atterrato in un paese dove si parla la lingua francese, non so il nome della città.
Atterrate abbiamo preso un taxi. Abbiamo consegnato al taxista il foglio datoci da Monday e ci ha portato in un albergo.
Il giorno dopo un ragazzo (non so come si chiama) è venuto a prenderci in albergo. Con lui abbiamo preso la metropolitana per andare alla stazione centrale dei treni.
In stazione il ragazzo ci ha comprato i biglietti. Per me ha comprato il biglietto per andare a Torino. Per Faith non lo so. Ho salutato Faith e sono salita sul treno.
Mi hanno dato un telefono con una sim card italiana, dicendomi che la madam a Torino mi avrebbe chiamato. Ma la madam non mi ha chiamato.
Quando sono arrivata a Torino si è avvicinata una donna chiedendomi se ero Pamela. Io ho risposto di si. Così la donna mi ha accompagnato a casa sua.
La donna mi ha detto subito di darle il telefono che mi aveva lasciato il ragazzo e il passaporto.
Mi ha chiesto quale crema per la pelle uso perché doveva andare al mercato a fare shopping.
Mi ha dato da mangiare.
Io volevo chiamare la mia famiglia per avvisare che ero arrivata. Ho chiesto alla donna se potevo ma lei mi ha detto che non potevo parlare con nessuno e che avrebbe avvistato lei i miei genitori.
Sono arrivata a Torino il 31/12/2012, non sono andata da nessuna parte perché era festa.
Ho iniziato al lavorare dopo due, tre giorni, era un sabato.
Il primo giorno la madam mi ha mandato a lavorare insieme ad un'altra ragazza, Blessing.
La madam mi ha detto quanto dovevo prendere per il lavoro in strada, 20 euro a cliente.
Mi ha detto che non dovevo andare a casa dei clienti e che non dovevo stare troppo tempo con i clienti, mi ha dato i preservativi spiegandomi come usarli.
Blessing mi ha fatto vedere il luogo dove dovevo lavorare.
Blessing non mi ha detto che dovevo iniziare quello stesso giorno ma mi ha solo fatto vedere il posto, dopodiché mi ha riportato a casa.
La madam quando è rientrata a casa mi ha chiesto come mai non ero a lavorare e che quindi sarei dovuta andare a lavorare il giorno dopo, domenica.
Blessing mi ha accompagnato sul luogo di lavoro e mi ha lasciato da sola, perché era domenica e di solito di domenica non si lavora. Quel giorno volevo scappare. Cercavo di spiegare la mia situazione ai clienti in inglese ma nessuno parlava inglese. Alla fine sono riuscita a trovare un signore che parlava inglese e gli ho spiegato la mia situazione e gli ho chiesto il numero della polizia. Lui ha chiamato un'altra ragazza che parlava inglese e anche alla ragazza ho spiegato la mia situazione.
Quando sono arrivati i carabinieri mi hanno chiesto cosa avessi nella borsa. Nella borsa avevo solo preservativi e fazzoletti.
Per andare sul luogo di lavoro ho preso l'autobus ma non mi ricordo il nome della strada (fuori Torino) e non ho tenuto il biglietto dell'autobus.
I carabinieri mi hanno portato in caserma e mi hanno chiesto come mi chiamavo. Io ho detto di chiamarmi Joy perché la madam mi aveva detto di dare quel nome se mi avessero preso i poliziotti o i carabinieri...
I carabinieri hanno chiamato una persona italiana che palava un po' l'inglese. Mi hanno preso le impronte digitali. Dopo qualche giorno mi hanno chiesto di raccontare la mia storia e hanno chiamato una mediatrice culturale nigeriana.
Alla mediatrice ho detto che non ero venuta in Italia con l'aereo ma che ero sbarcata a Lampedusa. Anche queste indicazioni me la aveva date la mia madam.
Ma non conoscevo meglio i dettagli, così non sapevo raccontare bene la storia ai carabinieri, perché non era la mia vera storia.
I carabinieri mi hanno accompagnato presso un'associazione di Torino.
Ho parlato con una mediatrice culturale che lavora per l'associazione. Le ho raccontato la storia di Lampedusa che mi aveva consigliato di dire la madam. La mediatrice si è accorta che non era vero ciò che le stavo raccontando, così ho iniziato a raccontare la mia vera storia. Ho raccontato del viaggio, della mia famiglia in Nigeria...
L'associazione di Torino mi ha ospitato presso una sua struttura. Mi hanno accompagnato a fare le visite mediche e così io ho detto loro di essere incinta. Io non potevo stare nelle loro strutture perché ero incinta, così mi hanno cercato un posto da un altra parte.
Ho lasciato l'associazione di Torino l' 8/05/2013 e sono andata in un altra casa di accoglienza di suore in Lombardia.
In Lombardia mi hanno seguito per tutto il periodo della gravidanza.
Un giorno la suora responsabile della casa di accoglienza mi ha chiamato per parlarmi di un progetto che da la possibilità di ritornare in Nigeria.
Io ho chiesto se era obbligatorio ritornare in Nigeria. Loro mi hanno spiegato che non era obbligatorio se avevo qualcuno che mi aiutava qua in Italia ma se in Italia non avevo nessuno dovevo ritornare in Nigeria.
Successivamente la Questura di Torino ha mandato la lettera di rifiuto della domanda dl permesso di soggiorno. Dopo aver ricevuto la comunicazione le suore della casa di accoglienza mi hanno detto che non potevo rimanere in Italia e che dovevo ritornare in Nigeria.
Dopo la nascita del bambino mi hanno nuovamente parlato del progetto di rimpatrio in Nigeria. Io ho detto che non volevo tornare in Nigeria, così loro mi hanno detto che dovevo iniziare ad aggiustarmi da sola.
Dopo questo colloquio ho avuto l'impressione che non volessero che io stessi presso le loro strutture.
Una ragazza che abitava nella stessa comunità mi aveva regalato dei vestiti per il bambino. Le suore credevano che io avessi rubato i vestiti.
Io ho chiesto alla ragazza che mi aveva regalato i vestiti perché non avesse detto la verità e lei mi ha solo chiesto scusa ma non è andata a dire alla suora che in realtà non avevo rubato i vestiti ma che era stata lei a regalarmeli.
Le suore hanno anche detto che io avevo rubato dei gioielli ma non era vero.
Dopo questi episodi continuavano a dirmi di entrare nel progetto di rimpatrio. Se non accettavo mi hanno detto che mi avrebbero tolto mio figlio. Così io sono scappata e ho chiamato una mia amica, Ester (che era già stata ospite nel Centro di Accoglienza di Asti). La mia amica mi ha dato i riferimenti del Centro di Accoglienza di Asti e mi ha detto dove si trovava.
Ho incontrato gli operatori del Centro di Accoglienza di Asti per la prima volta il 22/08/2013 ad Asti”.

Nel pomeriggio telefono alla suora responsabile della casa si accoglienza in Lombardia per avere maggior informazioni.
“La ragazza è una testona, ha rubato una catenina d'oro ad un'altra ragazza, ma ha negato sempre tutto. E poi le abbiamo proposto di partecipare ad un progetto di rimpatrio assistito gestito direttamente da delle suore in Nigeria, ma la ragazza ha sempre rifiutato. E poi la Questura le ha rigettato la domanda per il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Adesso è clandestina e se ne deve andare, noi non teniamo i clandestini”.
Quaranta minuti di puro delirio, la suora si infervora e salmodia la sua inattaccabile tesi. La ragazza deve tornare in Nigeria e basta.
Faccio fatica a seguirla, mi infastidisce quel suo tono predicatorio e saccente.
E poi c'è un cosa che mi spinge verso un'incazzatura inumana: del bambino nemmeno una parola.
“OK, però almeno potevate accompagnarla a chiedere il permesso di soggiorno per cure mediche, per maternità”.
“Ma lei lo sa che quel permesso dura solo sei mesi e non è rinnovabile? E quando scade ritorna clandestina e non serve a niente. In questa situazione la ragazza deve ritornare in Nigeria. Noi i clandestini non li teniamo”.
Quel permesso per cure mediche non è vero che non serve a niente, permette alla madre ed al bambino di accedere alle strutture sanitarie per i controlli di rito, per garantire la salute al bambino. Poi si vedrà...

Suore. Carità. Penitenza. Sacrificio. Ordine. Fede. Suore.
L'importante è garantire il rispetto delle regole.
Una ragazza poco più che adolescente, senza soldi e documenti, semianalfabeta che si allontana con in mano un bambino di 12 giorni verso destinazione e futuro ignoto non conta nulla.
L'importante è il rispetto delle regole.
L'importante è garantire che la vita sia sempre concepita.
Una volta concepita, quella vita non vale più un cazzo. Può essere abbandonata senza scrupoli al destino di una madre disgraziata.
Mi chiedo con che criterio vengono accreditate e autorizzate certe strutture di accoglienza dove le responsabili non si premurano nemmeno della salute dei neonati.
E mi fermo qui, che mi sale una rabbia che non mi è usuale.
E bestemmio, bestemmio, bestemmio.

Asti, 30 agosto 2013

mercoledì 18 giugno 2014

a Roma con John Fante, ospite a LETTERATURE Festival Internazionale di Roma


Ci sarò anch'io e questo è il brano che ho scelto di leggere:

«E così ti droghi» le dissi.
«Solo ogni tanto» obiettò. «Quando sono stanca.»
«Devi smetterla.»
«Non è mica un'abitudine.»
«Comunque la devi piantare.»
Si strinse nelle spalle. «A me va bene così.»
«Promettimi che la farai finita.»
Si fece una croce in corrispondenza del cuore. «Che io possa morire all'istante.»
Ma stava parlando ad Arturo, non a Sammy, e io sapevo che non avrebbe mantenuto la promessa.
Mise in moto, poi si avviò lungo Broadway fino all'Ottava, dove svoltò, diretta alla Central Avenue.
«Dove andiamo?» le dissi.
«Adesso vedrai.»
Imboccammo la Black Belt di Los Angeles, Central Avenue, una via di night club, case abbandonate ed edifici cadenti, dove i neri morivano di fame e i bianchi venivano a spassarsela.
Ci fermammo sotto l'insegna di un locale notturno, il Club Cuba.
Camilla conosceva il portiere, un gigante che indossava un'uniforme blu con i bottoni d'oro.
«Affari» gli disse.
Lui sogghignò, fece cenno a qualcuno di prendere il suo posto e saltò sul predellino.
Tutto si era svolto come se si trattasse di una consuetudine.
Lei girò l'angolo e continuò per un paio di isolati, finché arrivammo a un vicolo. Lo imboccò, spense le luci e proseguì lentamente nel buio più totale. Arrivata a una specie di apertura, spense il motore.
Il gigante nero saltò giù dal predellino, estrasse una lampadina tascabile e ci fece cenno di seguirlo. 
«Posso chiederti cosa diavolo sta succedendo?» le dissi.
Varcammo una porta. Il negro ci precedeva, tenendo per mano Camilla, la quale a sua volta teneva me.
Percorremmo un lungo corridoio con il pavimento in legno. L'eco dei nostri piedi si levò verso i piani superiori, come il rumore di un gruppo di uccelli spaventati.
Salimmo tre rampe di scale e ci inoltrammo in un altro corridoio, in fondo al quale c'era una porta. Il negro l'aprì, ma io non vidi altro che buio.
Entrammo. La stanza era piena di fumo; non lo si vedeva, ma mi assalì, penetrandomi in gola e soffocandomi. Inghiottii, cercando di riprendere fiato.
Poi il negro accese la sua lampadina tascabile. Il fascio di luce perlustrò la stanza.
Era piccola e zeppa di corpi, corpi di negri, uomini e donne, sdraiati per terra o su un letto, costituito da una rete con un materasso appoggiato sopra.
Alla luce della lampadina vidi i loro occhi, spalancati e opachi come ostriche, e, man mano che mi abituavo al fumo, scorsi tutt'attorno dei puntini incandescenti.
Fumavano tutti marijuana, al buio e in silenzio, lo capivo dall'odore pungente che mi feriva i polmoni.
Il negro buttò giù dal letto i suoi occupanti, scaraventandoli per terra come dei sacchi di farina, e si mise a frugare in uno squarcio del materasso.
Quando si rialzò, aveva in mano una scatola di tabacco Prince Albert.
Riaprì la porta e ci precedette giù per le scale buie fino alla macchina. Qui porse la scatola a Camilla, che gli diede due dollari.
Lo lasciammo davanti al night, dove riprese le funzioni di portiere, e riprendemmo la Central Avenue diretti in centro.
Ero senza parole.

JOHN FANTE - CHIEDI ALLA POLVERE